Il venticinque marzo di quest’anno i ventisette paesi della Magnifica Comunità Europea si daranno convegno a Roma per festeggiare l’anniversario dei trattati. È una festa a cui non possiamo mancare e che meriterebbe una simbolica levata d’ingegno popolare. Modesta proposta, troppo tardiva per essere realizzata e troppo antipatica per trovare orecchie disponibili alla sua attuazione: perché non drappeggiare le case italiane di bandiere? Un po’ come – ve lo ricordate? – ai tempi della seconda guerra in Irak, quando i terrazzi e i balconi del Belpaese si trasformarono in altrettante aste di vessilli arcobaleno. Era la modalità simbolica con la quale un sentire diffuso aveva realizzato il proprio silente – ma assordante! – megafono: vogliamo la pace, no alla guerra. Era come se una larghissima fetta di connazionali manifestasse il proprio sdegno ventiquattr’ore su ventiquattro, anche mentre lavorava, anche mentre dormiva, anche mentre gli aerei militari in una certa parte del mondo sganciavano i loro missili assassini. Bene, nel caso di specie, auspichiamo una panolada di bandiere italiane listate a lutto, di tricolori col vessillo nero. E se ciò accadesse soprattutto nelle immediate vicinanze del Palazzo dei Conservatori, in Campidoglio, mentre la Merkel e Junker e Schulz fanno la loro sfilata, impettiti, o ascoltano l’Inno alla Gioia, sull’attenti, sarebbe commovente: la risposta migliore per la celebrazione di un anniversario funesto, un accorato e colorato slancio di popolo nei confronti di quell’idea liberticida e tirannica che risponde al nome di Unione Europea. I tempi sono maturi? Direi di sì. Diciassette anni di disastri (parliamo del periodo della moneta comune) dovrebbero aver ridestato la sopita coscienza dei più. Persino la monumentale menzogna della UE salvifica rispetto a una tradizione europea di guerre guerreggiate è stata smentita dai fatti. I fatti, con la loro granitica durezza, si sono incaricati di sbugiardare il mito leggendario dei Padri fondatori. Abbiamo avuto un lungo periodo di pacifica convivenza post bellica e di crescita economica e di benessere diffuso in tutte le nazioni europee senza il trattato di Maastricht (1992) e anzi prima di esso. Abbiamo avuto almeno un ventennio – scansione periodica fascista per definizione – di progressivo smantellamento delle democrazie nazionali e di asservimento a centrali di governo oligopolistiche e a-democratiche con il trattato di Maastricht e anzi dopo di esso. Serve altro per capire che l’Unione non è stata, non è e non sarà la soluzione dei mali endemici del continente, ma ne è piuttosto il tumore infetto e maligno di cui continuano a proliferare le metastasi? Una risposta fornita a lume di logica e buon senso non può essere che: no, non serve, basta così, abbiamo capito. Ma la logica e il buon senso si eclissano quando il disegno complessivo, quello della studiata mortificazione dei concetti di democrazia e partecipazione popolare, prescinde da essi e riposa su altre esigenze. In primis, quella di imbullonare le sbarre di una gabbia di regole al servizio degli occulti padroni e all’insaputa dei futuri prigionieri. Ma ci resta pur sempre la bandiera. Esponetela. A lutto, se potete.
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