Ecco alcune sobrie e sintetiche dichiarazioni sulla situazione mondiale e sul pericolo rappresentato dall’Isis e dall’estremismo islamico da parte di autorevoli rappresentanti delle religioni, della politica, del giornalismo, dell’economia eccetera eccetera. Papa Francesco: “Siamo in guerra”. Umberto Eco: “Siamo in guerra”. Lucia Annunziata: “Siamo in guerra”. Enrico Letta: “Siamo in guerra”. Giulietto Chiesa: “Siamo in guerra”. Francoise Hollande: “Siamo in guerra”. Manuel Valls: “Siamo in guerra”. Silvio Berlusconi: “Siamo in guerra”. Re Abdullah di Giordania: “Siamo in guerra”. Paperino: “Siamo in guerra”. Topolino: “Siamo in guerra”. Batman: “Siamo in guerra”. Stop. Non serve continuare perché l’abbiamo capito: siamo in guerra. Se lo dicono tutti vuol dire che è vero. “Siamo in guerra?” è diventata una domanda stupida perché è una domanda retorica. Se oggi non riconosci che “siamo in guerra” allora sei un disinformato o sei in malafede. Bene, allora – posto che siamo in guerra – perché questo diluvio di insulti a reti unificate, questo stracciamento di vesti collettivo, questa isteria di massa nei confronti della decisione di Trump di inibire temporaneamente l’ingresso negli USA ai cittadini di sette paesi a maggioranza islamica? Ammettiamo pure che si tratti di una misura controcorrente in un mondo senza reti, per quale ragione essa suscita tanto scandalo? In fondo, il provvedimento del presidente neoeletto è coerente con le premesse di cui sopra. Se siamo in guerra, è ovviamente permesso l’uso delle armi. E dunque perché diamine non dovrebbe essere consentita la blindatura selettiva dei confini a danno dei supposti nemici? Quella di Trump, da qualsiasi prospettiva la si valuti, è una decisione logica e ineccepibilmente dedotta dalle premesse date e condivise dal mondo intero. Siamo in guerra – si grida senza posa – e il nemico non neppure è alle porte, a quanto pare, perché è già entrato. Il nemico, secondo l’opinione pubblica occidentale, è il terrorismo islamico. Il Presidente USA che doveva fare? Chiudere le frontiere ai cittadini dei paesi di maggioranza animista, induista o cattolica? La verità è un’altra. Donald non è stato messo alla gogna dai media perché ha reagito, ma perché ha reagito in modo difforme rispetto agli auspici delle agenzie globali di diffusione del mantra “siamo in guerra”. Egli infastidisce i maestrini del diplomaticamente corretto quanto uno scolaro ostinato nel ricavare un quattro dalla somma algebrica due-più-due. Due più due deve fare cinque, non quattro. Parola di maestri corrotti. Quando tutti gridano “siamo in guerra”, i politici educati devono spingere verso soluzioni ‘di sistema’, cioè internazionaliste, cioè di cessione di quote sovrane a organismi sovra-statuali. Per dire, se Donald avesse proposto la creazione di un esercito mondiale, allora sarebbe stato beatificato. Invece ha deciso di fare una scelta ovvia, quasi pacifista, per chiunque guidi un paese “in guerra”: mettere in sicurezza i propri confini. Che volete farci, capita. A volte, chi semina guerra raccoglie Trump.
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