Se la Lorenzin pensa a un fertility day fa esattamente la stessa cosa di Poletti con il jobs act o di Renzi quando sproloquia di futuro, innovazione e crescita. I magnifici tre sono un po’ come i paesani festanti della canzone di Amedeo Minghi sul venticinque aprile: sigarette e cioccolata per l’Italia liberata. Sovrani senza scettro, impotenti di fronte ai problemi. Prendiamone uno a caso: in Italia si fanno pochi figli, promuoviamo la fertilità. Oppure, a piacere: la disoccupazione aumenta, bisogna creare nuovi posti di lavoro. O ancora, dal mazzo: ci vuole un maggiore coinvolgimento dei cittadini nel progetto europeo, urge innescare partecipazione. Risposte: il fertility day, i vaucher e una cena per tre a Ventotene. Non sono persone cattive, i nostri rappresentanti. Sono persone impotenti. Non è che non vogliono risolvere le grane. Non possono farlo. Per lo stesso identico motivo: sono tutti ministri senza portafoglio, gli hanno ciulato la cassaforte. Guidano – su binari tracciati da altri – una locomotiva in prestito la cui andatura è frenata dal carbone razionato, e per la piccola manutenzione devono implorare la mancia a mammà. Ergo? Ergo, pettinano le bambole, direbbe Bersani. Cioè si dedicano con certosino puntiglio all’unica casella non occupata dagli invasori: quella simbolica e propagandistica. La Lorenzin, applicata ai manifesti per inseminare di figli la patria, fa propaganda; Poletti, ideatore dei vaucher da spacciare come ‘nuovi posti di lavoro’, fa propaganda; Renzi, nell’isola che c’è di Ventotene a sognare l’isola che non c’è di un’Unione felice, fa propaganda. La visione sistemica dei processi, l’analisi critica dei problemi e la pragmatica realizzazione delle soluzioni (trailer dal film C’era una volta la politica sovrana) sono totalmente estranee ai nostri governanti. È poi inevitabile che una ministra della Repubblica faccia la figura del nano in giardino non appena scende in piazza col suo poster A4 e il primo passante le grida: ‘vogliamo asili e lavoro, non fertility day’. Quel passante giganteggia – confrontato a un ministro qualsiasi – perché parla di vera politica a un finto politico che può solo parlare (non fare). La politica è potere in atto, declinazione – sul piano delle scelte concrete, e costose, – di una forza statuale autonoma e indipendente. Essa, oggidì, si pratica in altri luoghi, in altri consessi, in altre organizzazioni. È forse questa la ragione per cui il nostro inconscio collettivo ha eletto a tormentone dell’estate 2016 il rap di Rovazzi. Il popolo italiano ha un’immensa nostalgia latente del proprio perduto potere. E allora, in attesa che il miracolo si compia, facciamo almeno – di quel ritornello – il nostro nuovo inno nazionale: andiamo a comandare.
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