Riflessioni sparse su scrittura, politica e diritto. Secondo una ricerca commentata dal linguista Tullio De Mauro, la carta costituzionale del 1947 ha una media di parole per articolo pari a 20. La riforma Renzi-Boschi vanta articoli composti di un numero di termini oscillante da 323 a 439. L’articolo 70 della defunta costituzione contava 9 parole. I geni della lampada gliene hanno aggiunte 430. Che dire? Forse i nostri padri costituenti erano degli analfabeti? Oppure l’attuale classe politica è un bouquet di virtuosi della grammatica e della sintassi? Entrambe le ipotesi sono smentite: la prima dalla storia, la seconda dalla cronaca. E allora? Perché i nuovi che avanzano hanno bisogno di una sovrabbondanza di lemmi linguistici per tradurre le proprie idee? Sono incapaci di dare forma ai loro pensieri? Chi è confuso, in effetti, pensa confuso e scrive confuso. Ma forse c’è una spiegazione più convincente. I nostri attuali rappresentanti non sono sempre contorti e prolissi. Anzi. Si rivelano tali solo nel momento in cui prendono una penna in mano. Se parlano, impiegano frasi brevissime, fanno un ampio uso di esempi, cercano ossessivamente la semplicità. Quando scrivono, invece, approntano delle sbobbe indigeribili, incomprensibili, aggrovigliate che poi la Corte Costituzionale di turno deve impegnarsi a sbrogliare. Qual è la ragione di questa differenza tra un’oralità primitiva, sotto le soglie delle competenze prescolari, e una scrittura oscura ai limiti dell’esoterico? È presto detto. Oggi va alla grande la tesi secondo cui – per farsi capire – bisogna parlar facile. Il popolo, oltre che bue, è pure babbeo, un minus habens a cui rivolgersi con una decina di vocaboli magari accompagnati dai disegni. Da qui nasce quel modo di guardare le telecamere con occhi vitrei – sillabando pensieri deboli – insegnato dai guru della comunicazione ai governanti. In un lontano passato, la cultura (incluso il bagaglio lessicale e la padronanza del linguaggio) era una nota di merito a margine del curriculum di un uomo di stato o di un intellettuale. Oggi il contrario. Se vai al di là delle cinquanta parole di uso corrente, allora non ti sai far capire, non sei in sintonia col pubblico. Perché il pubblico è deficiente. Così dalla parola detta promana il nulla, il vuoto. Da quella scritta nelle leggi, invece, uno stillicidio di orrendi e sgrammaticati barocchismi, una sequenza interminabile di periodi, commi, postille, incisi, parentetiche, subordinate. E va bene così a lorsignori: nella legge si annidano le porcherie di un potere a-democratico. Esse sono funzionali alla matrice, concepite apposta per non essere comprese in tempo utile da chi dovrà sopportarne le penose conseguenze.
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