Uno degli aspetti più spassosi di tutta la faccenda è che questi signori si definiscono liberali. Dove per liberalismo, salvo fraintendimenti, si intende un sistema in cui la concorrenza tra i prodotti, la libera iniziativa privata, il gioco spavaldo della competizione, favorisce più qualità, più benessere, più alternative per tutti. Soprattutto meno diktat oppressivi, meno mano pubblica, meno burocrazia. Ecco, la Unione Europea, in linea teorica, si regge su questi principi, ma fate caso a come la cronaca li smentisca a ogni piè sospinto. Anzi, facciamo un altro esperimento. Descriviamo due sistemi e voi scegliete qual è quello più liberale. Nel primo, ogni cinque anni il Governo di un insieme di stati confederati appronta un piano destinato a regolamentare la produzione industriale, rilanciare i consumi, agevolare la crescita, aumentare l’occupazione e i salari, disciplinare le derrate agricole, bacchettare le nazioni riottose ad adeguarsi alle norme comuni. Nel secondo, ogni anno, il Governo di un insieme di stati confederati appronta un piano destinato a regolamentare la produzione industriale, rilanciare i consumi, agevolare la crescita, aumentare l’occupazione e i salari, disciplinare le derrate agricole, bacchettare le nazioni riottose ad adeguarsi alle norme comuni. In più, nel secondo che ho detto, quello stesso Governo si riserva di passare al setaccio i decimali di PIL, di deficit, di stime di crescita di ogni singolo Stato appartenente alla congrega, e di sanzionarlo con l’apertura di una procedura di infrazione se esso si discosta dai parametri decisi. Sono due sistemi illiberali, ma il secondo lo è di più, giusto? Bene, quest’ultimo si chiama Unione Europea, l’altro (quello del piano quinquennale) Unione Sovietica. Noi non possiamo decidere neanche le tinte da dare a Palazzo Chigi senza che si alzi, dallo scranno della commissione, un lettone qualsiasi (un lettone!) a farci le pulci. Eppure, il bunker è stato ammantato dalla retorica del liberalismo trionfante. In altri termini, mentre eravamo distratti a guardare i cartoni animati con l’Inno alla Gioia e le minchiate sulla democrazia condivisa dei popoli un tempo nemici ed ora fratelli, ci siamo ritrovati rinchiusi in un Kolchoz, come dei contadini siberiani, dei kulaki qualsiasi. Abbiamo fatto il percorso inverso rispetto alla Cina. Lì sono passati dal socialismo reale al capitalismo di stato. Qui siamo passati dal capitalismo reale al comunismo di stato. Siamo irreggimentati e comandati a bacchetta da un Soviet supremo di ventotto membri mai eletti da nessuno con uno spropositato potere sulla vita di settecento milioni di persone. E tutto ciò è avvenuto senza colpo ferire, senza un colpo di Stato visibile e conclamato. Solo attraverso piccoli progressivi aggiustamenti culminanti nel mostruoso aggiustamento complessivo causa dell’irrimediabile collasso delle nostre democrazie. Da qui quel vago sentore di averla presa in quel posto senza aver avuto il tempo di reagire. Inkulaki per sempre.
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