Quando muore un uomo enorme, come Marco Pannella, è difficile che i media non scandaglino ogni centimetro quadrato della sua biografia privata e sociale. Ed è arduo stabilire dove inizi la prima e finisca la seconda anche perché il privato e il sociale, in certe personalità, si confondono e diventano così promiscui da sciogliersi l’uno nell’altro. Di Pannella, il giorno appresso alla sua morte rumorosa, si è dunque detto tutto? Forse no. Forse un aspetto è sfuggito e non era né privato né sociale. Che sia sfuggito perché non catalogabile o perché troppo importante non conta. Ma è sfuggito, proprio come Pannella alla sua vita, alla sua malattia, alla sua vecchiezza. L’aspetto in questione ha a che fare con l’ateismo di Marco e con la sua fame di esistere. Egli non credeva in un aldilà, in un di poi, in un orizzonte di senso che illuminasse il buio oltre la siepe della fine. Eppure, fino a spirare, ha brindato alla vita, ha messo in comune il suo desco, il suo cibo, le sue idee, la sua logorroica incontinenza con tanti antichi e nuovi tromboni della politica che entravano e uscivano dalla sua casa, come si entra e si esce da un obitorio, il giorno del commiato. Ossequiato in fine vita, si è detto, come se fosse già morto, trattato da morto civile quando era in vita. Ma la vera chiave per capirlo, per onorarne la grandezza, sta nello stupefacente coraggio con cui l’uomo ha affrontato la sua morte imminente, sicura, certa, dietro l’angolo (non più di quanto lo sia quella di ciascuno di noi, del resto), senza mai abdicare alla propria irruenta vivacità, senza mai cedere alla tentazione del compianto, senza mai invocare la benedizione di un ministro di culto. Non stiamo esaltando il suo strenuo ateismo, sia chiaro. Siamo semplicemente rapiti dalla sua sconvolgente interpretazione del carpe diem, aldilà delle opportuniste conversioni in puncto mortis, aldilà dell’aldilà, persino. Questa non è una attitudine privata o sociale, è un’attitudine religiosa, a suo modo, per la fede che impone. Ed esige il leonino coraggio di guardare in faccia la prospettiva dell’estinzione del sé al riparo di crucci ed angosce rispondendo con una sberleffo alla danza macabra del nulla. Ecco, in questo, anche solo in questo, l’ultima lezione di Pannella travalica persino le spavalde battaglie di una vita. Pensate a quanti personaggi altrettanto noti, affacciatisi alle soglie dell’inferno della senescenza estrema, della patologia mortale, non hanno saputo conservare quel ghigno epicureo e la donchisciottesca strafottenza di godersela fino alla fine, di giocarsela fino alla fine, di cantarsela fino alla fine pur nella dura coscienza che quella fine è davvero la fine. È consolante approssimarsi all’altrove, se c’è, con la garanzia di un Dio amorevole e accogliente. Ma farlo convinti che quel Dio non c’è, e quell’altrove neppure, e farlo con questa dignità è da pochi. Ecco, in questa titanica sfida al niente, e nel sorriso con cui è stata affrontata, sta tutta la gigantesca statura umana di Pannella. Di fronte alla celebre scommessa di Pascal, egli ha puntato dritto e feroce sul no. Forse per questo, più di ogni altro, merita di perderla, quella scommessa, ma di guadagnarne lo stesso i dividendi.
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