Camillo Benso, conte di Cavour, pronunciò un bel dì una delle frasi più agghiaccianti della nostra storia patria: fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani (i più la ascrivono a Massimo d’Azeglio, ma non importa perché il conte, se non l’ha detto, l’ha di certo pensato). Secondo la filosofia implicita in questo terrificante slogan, noi siamo un prodotto alchemico, sintetizzato nelle provette dei piccoli chimici della Grande Politica. Questa formula ci dice che la nostra identità civica non è il frutto di una storia comune e di passioni condivise, di un idem sentire reclamante il proprio diritto ad essere riconosciuto in una entità statuale a cui, se del caso, sacrificare la vita. Nossignori, noi siamo stati fatti da qualche premuroso e presuntuoso signore in doppiopetto, marsina e bombetta il quale, lungimirante e previdente il giusto, seppe capire in anticipo ciò di cui necessitavamo: una cornice collettiva di senso, un cuore e batticuore d’armonie in grado di dipanarsi attraverso i secoli passando dagli olocausti di trincea della prima guerra mondiale ai mondiali dell’Ottantadue quando si capì che un sentimento patriottico c’era ancora, c’era davvero. Insomma, siamo stati fatti, come dei cyborg, e l’operazione è all’apparenza riuscita. E va bene. Ma che c’entra Camillo Benso con i fatti di Bruxelles? C’entra eccome. Perché una delle grosse questioni sul tavolo dei pezzi grossi del manicomio comunitario è che i cittadini delle singole nazioni recalcitrano, non si sentono parte di un processo cementizio. Nonostante un decennio di massacri sociali, di crisi finanziaria, di istituzioni a-democratiche costruite senza consultazioni popolari, nonostante tutto questo, i tedeschi continuano a sentirsi tedeschi, i francesi francesi, gli spagnoli spagnoli e, forse, gli italiani italiani. Un bel momento, lo spettro del Camillo dev’essersi manifestato sui lunghi tavoli ovali dei coevi padri ignobili della UE per suggerire, più o meno: “Amici cari, è proprio questo il problema. Il vostro edificio è elitario che basta da funzionare senza interferenze popolari e di questo vi do merito. Però, Vivaddio, non potete continuare così. Fatta l’Europa, dovete fare gli europei”. Il fantasma ha sortito sulle menti dei convenuti lo stesso effetto catartico dell’ectoplasma del padre sulla psiche di Amleto. Li ha illuminati e motivati. Ecco la seconda chiave per capire tutto il mare di stronzate retoriche post Bruxelles. Il comandamento numero due del manuale delle Giovani Marmotte della Reazione al Terrore recita: approfitta degli eventi per creare coesione. Cosa c’è di meglio di una tragedia compatita per affratellare i diversi? Dopotutto, il sangue nazionale dell’Italia unita si è coagulato nel crogiuolo della Grande Guerra: poveri cristi di ogni regione maciullati senza distinzione di lingua, di credo, di opinioni politiche o di condizioni personali e sociali. Ecco, loro non lo dicono apertamente, ma da molti editoriali post Bruxelles, da molte dichiarazioni di prammatica di Junker e sodali trasuda, in filigrana, un compiacimento sottilmente ignobile, denso abbastanza da essere intuito, ma indegno a sufficienza per non esser palesato: che belle quelle piazze successive al botto, così europee, quelle vignette di bimbi diversamente etnici, quei funerali senza frontiere, quel brulicar diffuso di emozioni transnazionali mai così forti, intense, potenti come dopo una bella catastrofe. Certo che a qualcuno, lassù gli sarà scappato un grazie al conte: c’avevi ragione Camillo, fatta l’Europa, faremo gli europei. Bomba su bomba.
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