L’anno scorso, nella scuola di un comune vicentino, il concerto natalizio prevedeva una compilation di canzoni arabe e africane che hanno marginalizzato in un canton (in un angolo, per dirla alla veneta) le canzoni e gli stornelli di matrice cristiana. I casi di insegnanti dall’iper zelo multietnico e pluriculturale che staccano i crocifissi dai muri, inibiscono il segno della croce, tolgono dal presepe il bue, l’asinello e persino il bambinello si moltiplicano. E disorientano molti poveri cristi di estrazione non islamica né animistica né induista né tantrica. Gente nostrana, insomma, ostinata nel coltivare due ingenui convincimenti. Primo: che il rimescolamento e la centrifuga di costumi, credenze e valori generato dalla globalizzazione non debba significare abiura delle proprie idee sull’aldilà e dei propri costumi nell’aldiqua. Secondo: se molti dei forestieri ospitati in casa nostra appartengono a etnie o religioni che ci impediscono di professare la nostra religione in casa loro, noi possiamo, quantomeno, esigere di veder rispettati da loro i nostri simboli in casa nostra. Non è complicato come ‘patto educativo’. È un’alleanza pedagogica, detto in termini forbiti accessibili anche agli educatori e formatori brulicanti di iniziative nelle scuole frequentate dai nostri figli. Eppure, la classe docente del Paese, in molti casi, non ci arriva. Non sembra arrivarci. Si sforza, ma non ce la fa. Quindi, di fronte alla prepotenza di un’Idea e di una Fede che si traducono con submission (sottomissione è la traslazione letterale del termine Islam), di fronte all’invasione di altre fedi, le più lontane e diverse da quelle di un paese cristiano come l’Italia, i prof scelgono, appunto, la sottomissione e la diversità. Perché accade? Non è una questione solo di fede, quanto piuttosto e soprattutto di cultura. Abbiamo seminato per decenni ignoranza e subcultura, abbiamo ciecamente aderito a un progetto di mondo ‘aperto’ privo di qualsiasi riferimento valoriale, etico, culturale in senso lato e, perciò, anche religioso. Insomma, pur implementando a dismisura i corsi, i diplomi di laurea, le pastoie burocratiche, i saperi specialistici che i nostri insegnanti dovevano appuntarsi al petto come medaglie al valore, li abbiamo svuotati di ogni supporto della nostra straordinaria Tradizione (con la T maiuscola), fatta, anche, di greci e latini ‘inattuali’, anche di umanisti troppo ‘classici’, anche di una fede troppo ‘semplice’ e antica. E così, destrutturando il pieno della nostra ricchissima cultura abbiamo edificato il vuoto di una nuova cultura aziendalistica, pseudo sociologica, infarcita di test a risposta multipla e di teste a razionalità minima. Un tempo ci definivamo ‘nani’ sulle spalle di giganti (secondo la lezione di Bernardo di Chartres). Oggi, molti dei nostri maestri sono nani e basta. Peggio, sono inani, cioè vani e inutili. Vuoti come le effigi delle statue da giardino. E qualcuno, prima o poi, doveva arrivare a riempirli.
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