Ci sono delle parole italiane, onomatopeiche, irrobustite da un raddoppio di sillaba che sembra quasi uno starnuto, futurista e liberante. Parole autoreferenziali dove significante e significato si fondono, si con-fondono e ne esce un lemma ridondante, un po’ barocco, anzi rococò, per la precisione. Dove quel cocò ti parla, meglio di una guida Touring, di stucchi e di merletti, di vezzi e di bocciuoli, di riccioli e arabeschi. Insomma, è la Polaroid dello stile francese in voga al fiorir del Settecento. Parole così, tipo accoccolato che racconta di rotondità attorcigliate a poltrire in divano con quella strepitosa successione di doppie ‘c’ dure che ricorda le coccole, ma anche il cioccolato. Oppure spaparanzato che dice dello spararsi una pennica, del pisolino dopo pranzo, dell’inerzia di un corpo sciolto sull’amaca, sotto il sole. I tentativi di de-scriverle, queste parole, sono vani perché uccidono vocaboli vivi che ‘duplicano’ apposta, a evitarci improbe fatiche semantiche: spa-pa-ranzato, e basta. Ac-coc-co-lato, e basta. Che vuoi di più? Bene, ce n’è un altro, di termine, col suono scoppiettante e metallico di un mitra, il caricatore occulto di un’epoca, la nostra. Un ‘termine’ che è, paradossalmente, l’inizio di tutto, che sa cifrare i ritmi del terzo millennio, ne restituisce l’essenza belluina e fremente, bramosa di tutte le vittorie e capace di premere il grilletto per averle. Una parola con la doppia sillaba, come quelle citate, ma secca e sottile quanto le altre son morbide e spugnose. È così di moda che la sa compitare, con sinistra voluttà, tutta la gente che piace. Politici, opinionisti, anchor man, figure istituzionali, la schioccano più e più e più e più volte al giorno frustando la lingua sul palato senza mai incespicare. Bravi, sono bravi, perché è un vocabolo che ti invoglia a metterci un di più che poi tradisce: compe-ti-ti-vi-tà. Con quel finale canagliesco che par preso di peso da ‘C’era un ragazzo che come me’. Quello che imitava i Beatles e i Rolling Stones e finì per cantare un’unica nota: ra-ta-ta-tà. Quando la senti in tv, ti coglie un brivido perché paventi l’inciampo su quelle insidiosissime ‘ti’. E invece no. Non sbaglia nessuno. Perché abbiamo politici all’altezza, tutti iper competitivi, il meglio del meglio, tarati sul senso ultimo della nostra civiltà: vincere, sempre, comunque, dovunque. Ecco cos’è la competi-ti-vità ed ecco perché ha sbaragliato i rivali divenendo, per il ventunesimo secolo, ciò che il Rinascimento fu per il Quattrocento o il Risorgimento per l’Ottocento. Per millenni, all’umanità è stato chiesto di sopravvivere. Oggi si comanda l’ultra-vivere che significa scompaginare il campo dei concorrenti, qualunque sia il cimento: non solo nel gioco, ma nel lavoro, nei sentimenti, nel tempo libero. Nella vita. Conta essere primi, i migliori e non per un giorno, o per un mese, o per un anno: sempre. Pena, la morte civile, il default, la reiezione dal consesso sociale. Nella logica dei mercati mondiali che ormai permea ogni tipo di interazione umana, facendola diventare una transazione commerciale, devi essere performante, all’avanguardia, puntando sull’innovazione e sulla ricerca per sbriciolare tutti gli altri messi assieme e partorire la Crescita. E non puoi rilassarti un minuto perché la tecnologia sforna commodities sempre nuove e, non stando al passo, stai al palo, cioè sei fottuto. Quindi non puoi godere i tuoi guadagni perché devi reinvestirli. Ma, essendo il marchio di fabbrica del nostro pensiero quotidiano, la competitività ha contaminato qualsiasi cosa. Non si traduce solo nelle strade deserte di molte città fatte di negozi, bar e pizzerie con le serrande abbassate, giustamente decimate perché poco competitive. Si traduce anche nei curriculum prodigiosi dei nostri giovani, sempre più belli e luccicanti di lustrini: e diplomi e master e lauree, doppie o triple, e lingue inglesi, sudamericane, globali. Eppure sono a spasso, devoti a San Precario, benché più bravi, preparati e ‘competitivi’ degli stessi selezionatori che dovrebbero assumerli. Ma non basta. Nella competitività vince uno e tutti gli altri son nessuno. Raus! A cercar fortuna in un call center. E si traduce pure nell’uccisione del tempo dei bambini, quella preziosa riserva di fancazzismo degli anni andati, di infinite giornate di nulla in agenda. Stop: oggi scuola a tempo pieno, strategie educative, e-learning e brain-storming, e poi sport semi-agonistico, musica para-professionale, impegni simil-accademici. E le vacanze le casserà un ministro mattacchione calibrato sulla competitività. Comunque, mai visti così tanti bambini geniali, come oggidì. Pensate ai vostri conoscenti: è difficile che non abbiano un piccolo genio in casa che sballottano, da mane a sera, da un’aula a una palestra a un campo di calcio a un uditorio, per coltivarne i talenti. By the way, ci sono libri delle elementari che si chiamano proprio così: ‘Piccolo genio’. E non è un caso, perché la missione è diventare com-pe-ti-ti-vi (che fa rima con cattivi) cioè non bravi, e neanche bravissimi, ma i più bravi di tutti. E uno su mille ce la farà, strimpellerebbe sempre Morandi. Perché la competitività non fa prigionieri, amici miei, e si lascia dietro un’autostrada di ‘morti’: depressi, impauriti, nevrotici convinti di non valere un cazzo solo perché arrivati secondi, o magari anche quindicesimi, o centocinquantesimi, su una gara con milioni di competitors. Mentre erano nella top hit del mazzo. Ma non c’è niente da fare. Han da schiattare perché gli manca l’X-factor, il timbro della specialità che connota quel talento innato e ‘innaturale’ che illo tempore esigevano da Mozart o da Leopardi. Oggi lo pretendono da tutti ed è un moltiplicarsi di programmi che ti invitano ad andare forte, forte forte! O ti ricordano che il tuo paese has got talent! E quindi anche tu devi averlo altrimenti sei fuori, capito? È una sfilata, sui palchi dei format che ho citato, di ragazzetti di una bravura commovente. A tredici anni cantano come Modugno, ballano come la Fracci, recitano come Gassman. Ma non sanno che non serve. La macchina da competizione che è il nostro dannato presente non esige ‘dei’ vincitori, ma ‘un’ vincitore. Il resto son perdenti. Selezionati dal mercato ed evacuati dal medesimo, con la nonchalance di una pisciata di cane. La competi-ti-ti-ti-ti-vità mitraglia vittime esistenziali, ha la foga di uno Spandau e non risparmia neanche gli anziani. C’è una soglia d’età oltre la quale diventi un relitto inutile, da rottamare. E rottamare è un’altra espressione figlia della competitività che, a sua volta, sforna politici baby, smart, easy, sexy, fichissimi, con la lingua letale quanto la Colt di Billy the Kid. I vecchi son l’epitome, mannaggia a loro, di tutto ciò che competitivo non è: lenti, inefficienti, brontoloni. Al massimo buoni a competere a una tombolata parrocchiale. Che crepino. E tra poco ce lo chiederà l’Europa, non per scherzo. Ai medici della mutua inglesi è stata caldeggiata una lista ‘end of life care’ ovvero di ‘accompagnamento al fine vita’ per malati terminali le cui aspettative di vita non superano i dodici mesi, ai quali proporre di essere ‘accompagnati’ all’uscita, cioè verso la morte. Risultato stra-competitivo: risparmio netto del 25% dei letti di ospedale e di circa 1,35 miliardi l’anno per la sanità di sua maestà. Ma per i giapponesi è ancora poco. Il ministro delle finanze, Taro Aso, ha dichiarato: “Perché dovrei pagare per persone che si limitano a mangiare e bere e che non fanno alcuno sforzo? Mi sveglierei sempre peggio sapendo che tutte le cure in corso sono a carico del governo. Il problema non si risolverà fino a quando non lascerete che si sbrighino a morire”. Ecco un uomo in sintonia col suo tempo. E con il mio, e con il vostro. Il tempo della compe-ti-ti-ti-ti-vità.
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