Dio ci guardi dal difendere Poletti e le sue gaffe. Ne ha dette tante e fatte tante, in qualità di ministro del lavoro, da farci seriamente dubitare della sua attitudine a fare il lavoro del ministro. Eppure, lo scandalo suscitato dalle sue improvvide dichiarazioni a proposito di curriculum e calcetto merita, se non una difesa d’ufficio, quantomeno una riflessione sul problema della verità. Nella contro-copertina dell’ultimo libro di Edoardo Albinati (‘La scuola cattolica’, vincitore del premio Strega) campeggia un monito: il problema della verità è se dirla o non dirla. Ora, dobbiamo sbrigarci a trovare una quadra a tale dilemma prima che sia troppo tardi. Esso può tradursi così: è vero o non è vero (tanto per restare in tema) che ultimamente si moltiplicano i casi di tolleranza zero per le enunciazioni di chicchessia quando esse non sono conformi a ciò che il garbo istituzionale pretende si dica o si pensi? Secondo noi, è vero. Sempre più spesso, le affermazioni dei personaggi più in vista, politici in primis, non sono giudicate o pesate in ragione della verità che contengono, bensì della loro conformità a ciò che – si presume – il politico medio, e mediamente educato, dovrebbe dire o pensare in quella determinata occasione. Prendete Poletti, il quale ha invitato i giovani a privilegiare il calcio a cinque ai curriculum nella caccia a un impiego. È venuto giù un diluvio di reazioni indignate. Pochi si sono chiesti se Poletti avesse detto, o meno, una qualche verità. Forse perché tutti sanno che l’ha detta. Da che mondo è mondo – tanto più nella società della comunicazione perennemente attiva – per farsi strada nelle professioni e in qualsiasi ambito del vivere civile i titoli sono solo un pre-requisito. Poi, la differenza la fa la capacità di relazionarsi a modo, di intessere rapporti, di conoscere e parlare vis a vis con chi decide piuttosto che attendere che uno sconosciuto si decida a rispondere alla nostra mail (la centomilionesima del giorno). È giusto? È sbagliato? Un po’ sì e un po’ no, forse, nel senso che l’intelligenza emotiva intesa come abilità di stare al mondo è altrettanto se non più importante di quella tradizionale. E ce lo testimoniano tonnellate di letteratura piscologica, prima e dopo Daniel Goleman. Ma non è neppure questo il punto. Il punto è se vogliamo continuare a dare una qualche importanza alla dimensione della verità. O se preferiamo che essa venga rottamata in nome di una specie di ‘etichetta’ del buon discorso, vittime di un galateo di ritorno, di una versione post-moderna del ‘Cortegiano’ di Baldassarre Castiglione. Le recenti caldeggiate riforme sulle fake news e sulla voglia matta di censura ce lo fanno temere. Ci interrogano sulla nostra disponibilità – di fronte a qualsiasi manifestazione di libero pensiero – a giocarci la partita dialettica non solo in nome della convenienza, dell’opportunità, della correttezza, del rispetto, ma anche in nome della verità di certe cose, di certe situazioni: quelle note a tutti, ma non dicibili perché ‘non sta bene’. Insomma, quel tipo di verità che spesso è nuda, e altrettanto spesso è cruda, ma è anche la sola vitamina per l’intelligenza. E l’unico antibiotico contro il conformismo.
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