Confindustria è l’associazione di categoria degli industriali italiani. Il suo giornale, Il Sole 24 Ore, ne costituisce la pubblicazione di riferimento e, logicamente, nel corso degli anni ha finito per rappresentare il vettore principe della ‘buona educazione’, di una sensibilità industriosa, di certi consolanti luoghi comuni, di un mood – direbbero gli inglesi – cioè di un ‘sentire’ che potremmo alla grossa designare come il common sense della brava borghesia italiana. In definitiva, di tutti quelli che producono ricchezza e la diffondono, coltivando in vitro idee moderate e allevando figli e nipoti vestiti alla marinara e sintonizzati su alcuni capisaldi irrinunciabili: crescita, concorrenza, liberalizzazioni, privatizzazioni, efficientismo, modernità, produttività, Europa. Bene, il quotidiano color salmone ha costituito un po’ il Bignami del bonus pater aziendae, una sorta di prontuario di facile consultazione attraverso il quale il medio liberal man poteva orientarsi nella giungla della globalizzazione, delle sue straordinarie opportunità, dei precetti di debito, di deficit, di pil, del culto dell’austerity eccetera eccetera. Ora, vien da dire, da cotanto senno, dalla creme de la creme del gotha del capitalismo nazionale poteva uscire qualcosa di men che perfetto sul piano dell’applicazione pratica delle ricette derivanti dalla fede cieca nell’onniscienza del mercato? No, no e poi no. Chi meglio dei padri fondatori, dei finanziatori, dei direttori di un quotidiano sbocciato dalla sana pianta delle virtù liberiste poteva dimostrarci che esse funzionano? Nessuno. Solo quelli che da anni ci ammaliano con discorsi magnificanti le progressive sorti della competitività erano in grado di dar corpo, e lustro, a una macchina perfetta. Una macchina con zero difetti dove qualità fa rima con eccellenza, dove l’eccellenza viene premiata dai mitici mercati, dove l’Europa è una risorsa e non un freno e dove la crisi è una miniera di plusvalenze. Orbene, stando a recenti notizie di stampa tratte dalle dichiarazioni dell’ex amministratore delegato e del suo ex direttore finanziario, il gruppo editoriale dell’industria italiana unita ha accumulato, al 30 settembre 2016, 61 milioni di perdite, e i suoi titoli hanno perso, dal 2007, l’87% del valore. Due considerazioni brevi brevi. La prima riguarda la legge del contrappasso dell’Alighieri, ma non infieriamo. La seconda, il nostro bisogno di nocchieri nel caotico e tempestoso oceano della contemporaneità. Ecco, come dire, scegliamoceli con più cura i maestri. Una volta si ammoniva: se vai da un dietologo guarda la sua pancia, se vai da un dentista dai un’occhiata ai suoi denti. Prima di fidarci di un guru non è una cattiva idea passarne al vaglio i risultati. Un albero si vede dai frutti. Se le ricette del giornale in questione non hanno funzionato, delle due l’una: o fanno schifo le ricette oppure il guru non le sa applicare. Personalmente, accendiamo la prima. Anche perché non abbiamo mai creduto ai guru.
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